A cento anni dalla fine della Grande guerra, affermare i valori della pace

Oggi, ricorre il centenario della vittoria dell’Italia nella Grande guerra.

Quel 4 novembre 1918, il nostro Paese, con il dissolversi degli eserciti austro-ungarici, uscì finalmente dall’incubo di un conflitto spaventoso costato, in 41 mesi di ostilità, 650mila morti e 1 milione di feriti e mutilati. Anche quelli che sopravvissero portarono per sempre nell’anima le ferite impresse dal terrore e dagli stenti patiti nella dura esperienza della vita di trincea.

Quella guerra così distruttiva, come mai ce n’erano state prima e nella quale le nazioni belligeranti buttarono ogni risorsa, sia umana che materiale, segnò la fine di un’epoca, cambiò il volto del mondo e seminò i presupposti letali dai quali sarebbero derivate altre grandi tragedie, nel corso dei decenni successivi.

Eventi drammatici strapparono all’affetto delle loro famiglie, alle loro case, ai loro studi, ai loro mestieri, centinaia di migliaia di giovani, che furono fatti affluire nelle zone in cui si svolgevano le operazioni militari, sulle montagne del Trentino, sugli altipiani del Veneto, lungo il corso del fiume Isonzo tra il Friuli e l’attuale Slovenia. Luoghi mai visti e mai sentiti nominare prima dalla maggior parte di quei ragazzi; e dove la fornace della guerra, in un fronte che si estendeva per ben 600 chilometri sulla dorsale alpina, dal passo dello Stelvio fino al mare, verso Trieste, consumava speranze, sogni e vite con impressionante regolarità: un grande olocausto di gioventù.

La guerra, in tutte le sue forme, è la più grande delle ingiustizie; è la negazione di ogni palpito di umanità; e si accanisce, in primo luogo, contro i più deboli, le donne, gli anziani, i bambini, la popolazione inerme. Le vittime di sempre, le vittime di ogni guerra. Però, cento anni fa, erano vittime anche gli spauriti soldati costretti ad andare, spesso, all’assalto di posizioni imprendibili sotto il fuoco implacabile del nemico; e non potevano tornare indietro. Condannati a morte a migliaia, ogni volta.

Noi, oggi, ricordiamo il sacrificio di quei ragazzi, la cui vita si spezzò inesorabilmente in un inferno di ferro e di fuoco. E’ un nostro dovere. Tuttavia, abbiamo, allo stesso tempo, l’obbligo di rammentare come, nonostante i lutti e le distruzioni terribili causati dal primo conflitto mondiale, il germe della guerra abbia saputo poi contaminare ancora l’animo degli uomini, spingendoli di nuovo nel baratro, pochi anni dopo. Quello che era successo in Europa tra il 1914 e il 1918, quell’orrore che mai si era visto non bastò a fermare il prevalere dell’odio e delle armi sui destini della pace.

La pace, appunto, la massima aspirazione a cui tendere. Una pace che non sia solo “assenza della guerra”, ma inattaccabile consapevolezza, fede incrollabile nella lotta all’ingiustizia e alla sopraffazione, slancio costante, affinché le giovani generazioni imparino che l’orrore porta solo ad altro orrore, che il dolore può non avere fine se non si costruisce in ogni uomo l’idea più solida della pace.

La pace, quindi, con tutta la sua potenza, cioè, la cultura della pace. Il solo modo per onorare la memoria del nostri Caduti, oggi e sempre.

dallaterrallaluna