Addio a O Rei do futbol. Obrigado, Pelè

È morto Pelè, Edson Arantes Do Nascimento, l’eterno Numero 10 del Brasile, O Rei do futbol. È morto l’uomo che tanto ha fatto per celebrare la grandezza del Calcio, di cui poi è stato Ambasciatore. Non è più tra noi “Il Calciatore del Secolo”, a cui hanno guardato tanti ragazzi di strada, che proprio alle insidie di quella strada sono sfuggiti, dando calci ad un pallone, e pensando alle sue magie come a una terra promessa. È morto Pelè, la Maglia verdeoro più nobile; per legge e per destino, patrimonio di tutti i Brasiliani, orgoglio che è andato oltre i confini del suo Paese, legato al prestigio della Coppa Rimet, sin dal mondiale svedese del 1958.

Il mito di Pelè nasce in quelle immagini in bianco e nero, che sembrano omeriche, di una spettacolare nudità in cui il gesto atletico è l’epifania di una leggenda. Era lui, Pelè, la potenza incastonata al centro di un Brasile titanico a cui si arrese un’Italia comunque eroica, nella magniloquenza della finale dell’Azteca a Mexico 70. Le immagini malferme del collegamento “via satellite”, in televisione, alle 20 del 21 giugno, raccontavano una storia il cui finale era già scritto; neanche una squadra di alieni venuta da chissà quale galassia avrebbe potuto avere ragione di quel Brasile meraviglioso, invincibile e generoso. Pelè aprì le marcature con un divino stacco di testa, a dispetto della sua statura non da corazziere, sovrastando in elevazione un mastino della difesa azzurra, Tarcisio Burnich. La Nazionale italiana stremata da una semifinale epica con la Germania Ovest di Franz Beckenbauer e Gerd Muller (il mitico 4-3 del 17 giugno 1970 ai supplementari), dopo aver pareggiato con Roberto Boninsegna, crollò nella ripresa, non aiutata dall’aria rarefatta degli oltre duemila metri di altitudine di Città del Messico. Fu una grande sconfitta, ma non una disfatta. Il Brasile di Pelè non umiliava gli avversari; era una forza della natura. La Selecao non poteva semplicemente fare a meno di vincere alla sua maniera. Fu la terza Rimet per Pelè. Nessuno è stato campione del mondo per tre volte con la propria nazionale (Svezia 1958, Cile 1962, Messico 1970).

Tutta la bellezza del mito di Pelè, raccontata dai padri, dai fratelli maggiori, dagli zii, dalle figurine Panini, dalle foto sui giornali e dalle poche immagini televisive (“Pelè ha segnato il millesimo goal!”) non ci lasciava mai, soprattutto quando si trattava di dare calci a un “super santos” o a un “super tele” in partite infinite, sul campo di un oratorio, per strada o in una piazza. Ma, mentre si giocava; mentre, gioco nel gioco, si fingeva di essere uno dei campioni più forti del momento, nessuno pensava di essere Pelè. Il campionissimo era presente e non veniva citato, come si faceva all’epoca, tentando ognuno una paradossale “radiocronaca”, nel mentre si affrontava un dribbling o quando si tirava in porta. Forse, era rispetto per un calciatore amatissimo, il Calciatore, che si percepiva ad una regale e intangibile distanza. Nessuno si sentiva Pelè. Quasi una divinità da non disturbare, troppo grande da tirare in ballo tra i sassi e la polvere di quei campetti. Stranamente accadeva questo.

Pelè, ora, è andato via; ma ci lascia tutta la sua grandezza di atleta e di uomo, il suo insegnamento, che il calcio odierno dovrebbe considerare. Ci lascia un pezzo della nostra vita, quello tra infanzia e preadolescenza, vergato con i colori verdeoro e con il numero 10 sulle spalle, indelebilmente.

Obrigado, Pelè.