John Fitzgerald Kennedy, cinquant’anni dopo Dallas, è ancora un’icona della modernità

Gli spari che cinquant’anni fa stroncarono la vita del più giovane Presidente degli Stati Uniti cancellarono un mondo intero popolato di speranze e voglia di libertà. Quel tragico 22 novembre 1963, un venerdì, l’America, come ha detto qualcuno, perse la sua innocenza.
John Fitzgerald Kennedy, l’uomo della Nuova Frontiera, alla Casa Bianca da 1036 giorni, in Dealy Plaza a Dallas, nel vecchio e ostile Texas, si presentò all’appuntamento con il destino, che gli puntava contro i fucili di una probabile e ben architettata congiura, come il simbolo di un Paese da abbattere. L’editore del Dallas Morning News, il giornale che attaccava di frequente il Presidente, era del parere, in pieno stile cow boy, che alla guida della nazione dovesse esserci un uomo che sapesse stare a cavallo e non uno che poteva solo cavalcare il triciclo della figlia Caroline.

Troppi i nemici in campo, troppi i rancori che si erano addensati attorno alla sua amministrazione. Coloro che sostengono la tesi del complotto suppongono che i petrolieri texani, alcuni settori dell’industria, i segregazionisti del Sud, la Mafia, i castristi e pure gli anti castristi e, forse, la Cia non gli lasciarono scampo.
Kennedy, non esente da errori e ambiguità, però, aveva tentato di aprire il suo Paese alle grandi tematiche del mondo contemporaneo, rimodellando il ruolo degli Stati Uniti nella Guerra Fredda; e pensava all’Unione Sovietica guidata da Krusciov, il leader del Partito comunista sovietico che aveva denunciato i crimini di Stalin, come a un nemico da sconfiggere anche con le idee della democrazia e col quale intavolare, possibilmente, un dialogo per il disarmo. Inoltre, si era schierato contro le discriminazioni razziali e i privilegi delle lobby e aveva indicato scelte politiche che potessero migliorate le condizioni di vita dei cittadini più deboli; credeva, come ci ha ricordato Arthur Schlesinger jr, in un mondo pluralista e delle diversità, in cui le nazioni, pur nell’ambito di un quadro di cooperazione internazionale, potessero risolvere i propri problemi secondo le loro tradizioni e ideali.

Dopo il fallimento dello sbarco alla Baia dei Porci, a Cuba (aprile 1961), operazione che non gli apparteneva perché pianificata dalla Cia sotto la presidenza Eisenhower, dimostrò fermezza nel difendere la pace, quando, dissentendo dal giudizio dei generali che avrebbero voluto bombardare a tappeto l’isola di Fidel Castro, dove i sovietici allestivano basi per puntare missili sul territorio statunitense, scelse la strada che avrebbe portato alla trattativa con Mosca (ottobre 1962). Per Kennedy, la guerra doveva essere l’ultima opzione e il mondo tirò un sospiro di sollievo. Tuttavia, mantenne l’impegno militare nel sudest asiatico, che aveva ereditato da Eisenhower, anche se fu Johnson ad aumentare, in modo più marcato, il coinvolgimento americano in Vietnam.

John Fitzgerald Kennedy non era un santo. Marito totalmente infedele, lasciava che le sue amanti accedessero persino alla Casa Bianca; e fu sospettato di avere avuto contatti con boss mafiosi.
Il suo messaggio, però, conquistò milioni di giovani che non erano gravati dagli schemi ideologici e polemici del passato. Fu quella immensa gioventù, che travalicava i confini dei continenti, a vederlo come la vera icona della modernità. E lo è per tantissimi ancora oggi.
L’assassinio di Dallas, con le sue pesanti ombre, fu una profonda ferita nel cuore democratico dell’occidente.

dallaterrallaluna

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