Novembre 1921, nasce il Partito Nazionale Fascista

Tra la fine del 1920 e gli inizi del 1921, Benito Mussolini impresse al movimento da lui fondato, nel 1919, una decisa conversione verso destra. Un processo determinato dalle conflittualità interne ai fasci, e da una serie di difficoltà, tra le quali quelle economiche in cui era venuto a trovarsi il suo giornale, il Popolo d’Italia. Questo nuovo scenario comportò la defezione degli elementi di sinistra, sostituiti da altri, studenti, piccolo borghesi, ex combattenti, più a loro agio in un movimento dall’ideologia ancora confusa e dal programma vago. Poi si sarebbero avvicinati, meno timidamente, ai fasci gruppi sempre più numerosi di conformisti e benpensanti. In quel periodo, l’apertura di Mussolini ai valori della borghesia e al Vaticano, la posizione assunta sulla questione di Fiume provocarono critiche e contestazioni. Filippo Tommaso Marinetti, tra tutti, denunciò l’allontanamento dei fasci dalle masse, abbandonando subito il movimento, insieme ad altri futuristi.

La spregiudicatezza di Mussolini fu aiutata da contingenze favorevoli, dall’atteggiamento di Giolitti nei confronti del fascismo e dalla vera e propria esplosione del più reazionario e indisciplinato fascismo agrario.

Sembrò, in un primo tempo, che Mussolini riuscisse ad affermare la propria autorità sulla periferia, facendo accettare ai fasci, in vista delle elezioni, la via del blocchi nazionali e agendo al contempo su D’Annunzio, verso il quale erano indirizzate le simpatie e le attese degli agrari e del sindacalismo fascista.

Con le Politiche del 15 maggio 1921, una pattuglia di fascisti, tra cui Mussolini, entrò in Parlamento. Ma la firma, nello studio romano del presidente della Camera, Enrico De Nicola, il 3 agosto, di un patto di pacificazione tra fascisti, socialisti e Confederazione generale del Lavoro, per fermare la violenza politica, diede il via a una prova di forza con i suoi avversari interni – tra le cui fila, emersero Dino Grandi, Roberto Farinacci e Italo Balbo – che non volevano si fermassero le azioni squadristiche e non venisse abbandonata la prospettiva rivoluzionaria. “Pena il suicidio – scrisse Mussolini sul Popolo d’Italia -, il fascismo deve essere riportato al suo principio e abbandonare la veste repressiva a difesa di taluni interessi particolari”. E, ancora: “Se il fascismo non mi segue, nessuno potrà obbligarmi a seguire il fascismo. Il fascismo può fare a meno di me? Certo, ma anche io posso fare benissimo a meno del fascismo. C’è posto per tutti in Italia, anche per trenta fascismi, il che significa, poi, per nessun fascismo”.

La contrapposizione fu dura e passò anche attraverso le dimissioni del futuro duce dalla commissione esecutiva dei fasci, una mossa che aprì una crepa nell’unità dei suoi oppositori. Ma il patto di pacificazione rimase alla discrezione dei singoli fasci; le violenze continuarono con spedizioni punitive e omicidi.

Mussolini, per rafforzare il suo personale potere e il carattere parlamentare e istituzionale del fascismo, osteggiato dai ras delle province, si impegnò, quindi, a trasformare il movimento in un partito tradizionalmente strutturato e ai suoi ordini, operando nel modo meno traumatico possibile e confermando la sua adesione alla politica di violenza squadristica sostenuta da Grandi.

Al III Congresso dei Fasci di combattimento, che si tenne al teatro Augusteo di Roma dal 7 al 10 novembre 1921, tutti gli avversari del fondatore del fascismo rinunciarono allo scontro frontale, riconoscendone, di conseguenza, la leadership. Anzi, l’abbraccio di Grandi e Marsich a Mussolini mise fine, almeno per il momento, alle dissidenze, e rappresentò il culmine di quell’assemblea, che decretò la nascita del Partito Nazionale Fascista. Un partito armato, consegnato a Benito Mussolini per tentare la presa del potere.

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