Un amore di Seicento

Un racconto

Antonietta era una bella donna, con un viso rotondo incorniciato da capelli corvini che toccavano le spalle. Aveva un sorriso radioso, come quello di certe dive del cinema. Era avvenente, Antonietta, pure timida e, a volte, scontrosa, facile a chiudersi in lunghi silenzi, che in genere passava nella sua stanza.
Aveva 26 anni – era nata nel 1932 – e un nugolo di corteggiatori, ai quali badava poco, pur essendone lusingata. Da quando Giacomo, l’unico ragazzo per il quale avesse provato qualcosa, le aveva confessato di avere un’altra, conosciuta nella vicina città dove si recava a lavoro, era precipitata in un torpore dei sentimenti, un letargo del cuore che, forse inconsciamente, ancora alimentava per difendersi da nuove delusioni. L’idea che aveva dell’universo maschile, però, era da sempre dominata dalla figura di suo padre ed era sicura che nessun uomo sarebbe potuto arrivare al suo livello.
Il padre, Emidio, mancato anni prima per quella maledetta polmonite di cui si era ammalato durante la guerra, era stato il postino del paese e molti non avevano dimenticato la sua bonomia, i modi gentili e l’allegria che regalava quando arrivava fischiettando con a tracolla il pesante borsone della posta.

Emidio aveva sposato, poco più che ventenne, Olga, una ragazza minuta e dal temperamento deciso che i vicini chiamavano la Bersagliera, per quel suo andare sempre di fretta.
Rimasta vedova, Olga, facendo la stiratrice, aveva dovuto, quasi da sola, provvedere alla famigliola, della quale faceva parte anche Giannino, nato nel 1937, ragazzo esuberante, ma pieno di rispetto per mamma e sorella. Poi, quando Antonietta, finita la scuola, aveva trovato un posto da segretaria presso un notaio, il dottor Francesco, vecchio compagno di classe di Emidio alle elementari, quella vita di sacrifici si era ammorbidita, anche perché Giannino dava una mano lavorando nell’officina di Michele, il meccanico più strampalato del circondario, capace però di geniali intuizioni e di grande generosità.

Giannino andava in giro con una lambretta, mentre Alfredo, il suo migliore amico, cavalcava fiero una vespa. Questa scelta diversa era frequente motivo di discussione. Una rivalità che esplodeva fino all’insulto. Del resto, nell’Italia di quegli anni, se eri lambrettista non potevi essere vespista, così come se eri alfista non potevi essere lancista; e se tifavi per Coppi dovevi per forza detestare Bartali.
Giannino e Alfredo erano fidanzati, rispettivamente, con Mirella e Cinzia, cugine tra loro, l’una bionda e l’altra mora, simili per carattere, quasi gemelle, ma con un particolare che accendeva i dissapori tra i due ragazzi. Mirella, infatti, chiedeva spesso a Giannino di condurre la lambretta; cosa che Cinzia non si sarebbe mai sognata di fare, perché aveva persino paura quando Alfredo dava gas al motore della sua vespa.
Messasi alla guida, Mirella amava fingersi Audrey Hepburn in 
Vacanze romane. Zigzagando, metteva apprensione a Giannino che non riusciva ad arrabbiarsi con lei, pur pensando, ogni volta, di finire a ruote all’aria.
Era, quella, l’occasione che Alfredo aspettava per manifestare tutta la sua perfidia, ricordando a Giannino che, nella famosa sequenza del film, Audrey Hepburn e Gregory Peck scorrazzavano per le strade di Roma in sella ad una vespa e non su una lambretta. Apriti cielo. Giannino sbatteva in faccia ad Alfredo tutta la presunta superiorità tecnica del suo scooter. Gli ricordava velocità, consumi, tenuta di strada e quant’altro, quasi fossero schiaffi sulle guance dell’amico. La rabbia, però, sbolliva presto e i due ragazzi ritornavano quelli di sempre.

Antonietta, quella mattina, si era alzata presto, come di solito; ma non sarebbe andata al lavoro: aveva, infatti, chiesto un giorno di permesso per via di un appuntamento che aspettava da tempo. C’era aria di festa, ma anche tanta eccitazione, in casa.
Mamma Olga aveva spalancato le imposte delle finestre, invitando il sole ad illuminare il soggiorno in cui, al centro di una parete, campeggiava il grande ritratto di Emidio sorridente, che si scorgeva anche dal corridoio che univa le stanze dell’appartamento.
Olga posava sempre lo sguardo sull’immagine del marito, come per comunicargli i suoi pensieri, per consolarlo e alleviare in lui la pena del distacco. Credeva, la donna, che il marito, all’altro mondo, soffrisse e si sentisse in colpa per averla lasciata sola con due figli piccoli.
Antonietta pensava al papà ogni giorno. I suoi, erano ricordi nitidi, ma pur sempre quelli di una bambina; si chiedeva, spesso, come lo avrebbe visto con occhi di donna.
La scomparsa dei nostri cari – pensava – quando anticipa l’approssimarsi, per noi, dell’età adulta, ci lascia un’incompiutezza di giudizio che è ingiusta quanto la stessa prematura dipartita. Li ricordiamo per quello che eravamo in quel momento.
Sbrigate tutte le sue personali faccende quotidiane, via col trucco. Decisa linea scura sugli occhi e rossetto rosso geranio sulle labbra; poi, capelli raccolti a coda di cavallo con un foulard e, quindi, il tuffo nell’armadio. Dal quale emerse, in pochi secondi, in una bianca camicetta di cotone con maniche a sbuffo e in un’ampia gonna rosa a vita stretta. Ai piedi, decolletè bianche con tacco di sei centimetri.
Era ormai pronta, doveva solo mettere sulle spalle il giacchino, anch’esso rosa, e prendere la borsa bianca.

Scese di fretta le scale, pur non essendo in ritardo. Erano le 9; e quel giorno di inizio luglio 1958 l’accolse con una festa di colori e profumi d’estate.
Con un gesto della mano, salutò la mamma affacciata alla finestra e, passo deciso, si avviò per lo stradone costeggiato dalle ultime case.
La brezza del mare le accarezzava il viso e muoveva la gonna che, delicata, sentiva aderire alle gambe.
Giocava con i pensieri; provava un senso di leggerezza e, se avesse potuto, si sarebbe librata in quel meraviglioso cielo, un velo azzurro teso tra i suoi occhi e l’infinito.
Mentre camminava, le tornavano in mente gli anni passati, che erano stati duri, se non di stenti, per la sua famiglia, come, del resto, per tutta la gente del paese. Le ferite della guerra facevano meno male; ora, si voleva solo dimenticare il passato e la miseria; si cominciava a sorridere, anche se il prezzo pagato era stato alto. Con l’arrivo di qualche soldo in più, ci si sentiva già ricchi e il futuro – ne era convinta – sarebbe diventato un presente carico di opportunità che avrebbero migliorato la vita di tutti.
Il fragore delle auto in transito la distolse, presto, da quell’andirivieni di considerazioni e, naturalmente, non mancava il bellimbusto che, vedendola, si attaccava al clacson; ma lei si sarebbe voltata solo se fosse comparso, in carne ed ossa, il suo attore preferito, Gary Cooper, magari bello e tenebroso come ne 
La fonte meravigliosa, visto allo Splendor, tempo prima. Quanto le sarebbe piaciuto essere al posto di Patricia Neal, in quel film.

Passo dopo passo, era così giunta in prossimità della sua meta che intravedeva dominata, dietro le vetrate, dalla corpulenta sagoma del signor Agenore. Questi notò Antonietta, mentre dal marciapiedi si dirigeva verso lo spiazzo antistante i suoi locali, e schizzò fuori, fissandola.
Il modo in cui la guardava, le aveva sempre dato fastidio; provava un irresistibile impulso a chiudere in fretta qualsiasi conversazione, ma, le toccava ascoltare ogni cosa che quell’uomo così poco gradito le avrebbe dovuto dire.

Conoscente di suo zio, Agenore era un uomo di mezza età che non le era mai andato a genio, ma del quale, in quella occasione, non aveva potuto fare a meno.
Capelli pettinati all’indietro, brillantina a non finire, sigaretta sempre accesa e stretto in una eterna giacca ecrù, Agenore aveva una voce irrochita dal fumo e un volto dai lineamenti marcati su cui ruotavano due occhi che parevano saltar fuori dalle orbite.
Era stato fascista e una sorta di faccendiere del podestà, con molte cose da farsi perdonare, anche se, alla caduta del regime, quando in tanti erano andati a cercarlo con l’intenzione di fargli pagare le angherie subite e trovandolo nel palazzo comunale nascosto in un armadio, tremante di paura, non gli fu torto un capello. In seguito, sparì per alcuni anni; poi, racimolato del denaro chissà come, era tornato per mettersi a vendere auto usate.
Agenore, fermo sotto l’insegna con la scritta 
Usato sicuro, la accolse dandole la mano e la invitò a seguirlo all’interno dell’autosalone, dove, in mezzo a una dozzina di automobili, le indicò una Seicento verde pastello, usata ma, a sentir lui, in ottime condizioni e immatricolata da soli due anni.
Era la sua automobile, la prima. Quella che aspettava da mesi. Le sembrava magnifica e avrebbe tanto voluto avere suo padre con lei in quel momento, perché quella macchinina era il sogno di tutta la famiglia, ancora più sentito perché Emidio, in vita, non aveva mai potuto permettersi un’auto di proprietà.
Il venditore, notando la gioia disegnata sul viso della ragazza, ne approfittò per partire a razzo con tutto il repertorio dialettico che il mestiere gli consentiva.
Le disse che l’utilitaria era perfetta; non avrebbe dato problemi; si teneva con poche spese e, soprattutto, avrebbe potuto portare la mamma in città o al mare; andare a trovare i parenti e in tutti posti che desiderasse visitare.
Agenore, girando intorno alla vettura, fece notare ad Antonietta l’assenza di graffi e ammaccature sulla carrozzeria, accarezzando le fiancate. Poi, aprì il cofano posteriore per farle vedere il motore, pulito e in ordine. Ripeté l’operazione con quello anteriore.
In effetti, la
 Seicento era un vero gioiello e i pneumatici a fascia bianca la rendevano molto elegante.
Aperto lo sportello a vento, lato guida, l’uomo salì a bordo; frugò nella tasca della portiera e tirò fuori il libretto di uso e manutenzione per mostrarlo alla neo proprietaria; quindi, girò la chiave di accensione e il piccolo 
quattrocilindri, con un sussulto, si mise in moto.
Provati luci e indicatori di direzione, con un’accelerata, la vetturetta sgaiattolò fuori dall’autosalone e si arrestò, frenando leggermente, nello spiazzo assolato.

La Seicento era ormai sua; l’avrebbe pagata a rate un tanto al mese e per molti mesi; comunque, una grande comodità per la sua famiglia.
Mentre il motore girava al minimo, con qualche borbottio, i due discussero gli ultimi particolari della consegna. Subito dopo, Antonietta, salutato frettolosamente il suo interlocutore, si accomodò sul sedile e raccolse con un gesto della mano sinistra l’ampia gonna sulle gambe che, ben unite per deludere le occhiate morbose di Agenore, portò verso la pedaliera.
La giovane chiuse lo sportello; regolò lo specchietto retrovisore interno e, premuto il pedale della frizione, inserì la prima marcia; quindi, disinserì il freno a mano e pigiò con prudenza l’acceleratore. Pur staccando, la frizione, troppo in alto, riuscì a non far spegnere il motore e la 
Seicento si avviò, immettendosi sulla strada. L’automobile era una meraviglia, piacevole da guidare, forse un po’ rumorosa, ma non importava. In quel momento contava solo la felicità che provava e non vedeva l’ora di arrivare a casa, da sua madre.
Improvvisamente, però, ricordò di dover fare ancora una cosa e, messa la freccia a destra, accostò, fermandosi.
Dalla borsa, tirò fuori un santino magnetico da cruscotto, preso nell’auto di suo zio Alberto, una 
Millecento con la quale aveva imparato a guidare. La sera prima, con un piccolo lavoro di forbici, aveva messo al posto della preesistente immagine di San Cristoforo, protettore degli automobilisti, una piccola foto di suo padre, Emidio, a cui aveva aggiunto una scritta di suo pugno: Non corro, Papà.

FINE

dallaterrallaluna