Il giorno che tutti andammo sulla Luna

Non fu un sacrificio alzarsi così presto, quella mattina di cinquant’anni fa. Era l’alba e, a trecentomila chilometri da noi, gli Americani erano sbarcati sulla Luna, con la missione Apollo 11. La più grande impresa mai compiuta dall’Uomo, che fissava una remota frontiera, le nuove colonne d’Ercole del mondo conosciuto.

Non guardavamo il cielo, ma il televisore in bianco e nero. Tutti svegli. Un insolito vocio animava il grande condominio nel quale abitavo; sullo sfondo, la voce di Tito Stagno che commentava la Storia, dagli studi Rai. L’Uomo sulla Luna era un sogno che trovava il suo compimento. Magico altrove che aveva sedotto la fantasia di artisti, scrittori, poeti, musicisti, cineasti, innamorati e scienziati, la Luna era lì mansueta, non nemica, nella sua perfetta solitudine cosmica.

Alle 22.17 del 20 luglio 1969, ora italiana, il modulo lunare (Lem) denominato “Eagle”, Aquila, con a bordo gli astronauti Neil Armstrong e Edwin Buzz Aldrin, aveva toccato il suolo del nostro satellite naturale, nel “Mare della Tranquillità”. L’America aveva vinto la grande sfida per la conquista della Spazio lanciata dall’Unione Sovietica dodici anni prima con la messa in orbita dello “Sputnik”.

La televisione, luogo della memoria collettiva, dava corpo a quell’evento in mondovisione: un miliardo di abitanti della “Blue Marble” si sentivano partecipi di qualcosa di prodigioso. Alle 4,56, ora italiana, del 21 Luglio 1969, Armstrong scese la scaletta del Lem e stampò nella polvere la prima impronta umana sulla superficie lunare. “Un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’Umanità”, la celebre, e secondo alcuni prestabilita, frase pronunciata dal capo missione.

Noi, bambini, guardavamo rapiti gli astronauti passeggiare sulla Luna, leggeri come palloncini, stagliati sullo sfondo nero dello spazio siderale, e la strana astronave dalle zampe di ragno, che era servita per l’ultimo balzo, quello decisivo. Il modellino del Lem sarebbe diventato, nei mesi successivi, il giocattolo più ambito dai maschietti.

John Kennedy aveva detto, nel 1961, che gli Stati Uniti avrebbero conquistato la Luna prima della fine del decennio; e quando quel traguardo fu raggiunto alla Casa Bianca c’era Richard Nixon, proprio l’avversario repubblicano che l’Uomo della Nuova Frontiera aveva battuto nelle presidenziali del 1960. Nixon voleva che la conquista della Luna apparisse come un grande sforzo compiuto nel nome della pace, perciò aveva visto di buon occhio, sul “Columbia”, la presenza di Armstrong, che proveniva dall’aviazione civile.

Il Presidente, che sapeva quanto quella poderosa operazione mediatica celebrata dai canali televisivi affermasse la superiorità degli Stati Uniti sulla grande potenza politico-militare comunista, però, era alla guida di un Paese tormentato e sempre più coinvolto nella guerra del Vietnam, altro che pace. L’anno prima, erano stati uccisi Martin Luther King e Robert Kennedy; mentre, la protesta di disoccupati, operai, studenti e afro-americani, per il disimpegno nel sudest asiatico, per il lavoro, l’università, i diritti civili, era quotidianamente sulle prime pagine dei giornali.

In Italia, come nel resto dell’Europa, il “Sessantotto” aveva chiesto il rinnovamento della società, ma, ormai lontani gli anni del boom economico, si aprivano altri, drammatici scenari che portarono all’Autunno caldo, alla Strategia della tensione, alle bombe, al Terrorismo. L’entusiasmo e lo stupore suscitati dallo sbarco sulla Luna, così, furono presto messi da parte.

“Qui, uomini dal pianeta Terra posero piede sulla Luna per la prima volta, luglio 1969 d.C. Siamo venuti in pace, a nome di tutta l’Umanità”. E’ quanto è scritto sulla targa che Armstrong e Aldrin lasciarono sul suolo lunare prima di decollare per raggiungere il “Columbia”, la navicella di comando sulla quale li attendeva Michael Collins, per fare rotta verso la Terra.

La pace l’Uomo non ha saputo mantenerla tante e tante altre volte ancora, a casa sua, impresa più ardua della conquista dello Spazio; e la Luna, imperturbabile, ha fatto finta di nulla. Forse, si è anche presa gioco di noi.